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Sunday, July 15, 2007

Buona giornata!
Anche oggi ho una sorpresa per chi non fosse riuscito a trovare in edicola il Numero 5 di Labrys; infatti, in accordo con la direttrice, pubblicherò un racconto facente parte della raccolta "Prisma", pubblicato, infatti, sul numero citato. La raccolta parla di differenti esperienze femminili nel mondo degli affetti, differenti e completi; ogni racconto è intitolato con il nome della protagonista.


Da "Prisma - Il mondo delle donne"

Donna

Erano le due e mezza della notte quando Donna si svegliò all'improvviso: guardando l'orologio appoggiato al comodino di fianco, si disse che non era possibile svegliarsi sempre, in mezzo alla notte; significava che non avrebbe più preso sonno e ormai non ne poteva più di quella insonnia che proprio non le voleva dare pace
Aveva preso la solita tisana prima di coricarsi ma proprio il sonno non voleva farle compagnia, nemmeno per quella notte.
Girandosi dalla parte del letto dove dormiva Stefano, suo marito, si accorse che lui, per fortuna, era nel sonno profondo e non volle svegliarlo per cui pensò di alzarsi e preparare un altro po' di camomilla e melissa per vedere di riprendere il sogno che stava facendo.
Mentre si avvicinava alla soglia della porta della camera, sentì distintamente un rumore provenire dalla stanza del figlio e pensò: è ritornato.
Si avviò per andare a salutarlo e scambiare quattro chiacchiere sul come aveva passato la serata, come faceva sempre; arrivò alla camera ma la porta era chiusa dall'esterno, come ormai era da più di tre mesi e le ritornò in mente tutto e cominciò a piangere in silenzio e le lacrime le scendevano lentamente sulle guance senza freno.

Donna era cresciuta in una vecchia casa di ringhiera, assime alla madre sarta, al padre muratore, al fratello maggiore ed alla nonna materna ormai centenaria.
La sua infanzia era stata tribolata, con i genitori sempre alle prese con i pochi soldi a disposizione per mandare avanti una famiglia con due bambini da avviare a scuola.
La madre, che aveva imparato a cucire nella scuola allestita dal parroco durante il ventennio, con il suo lavoro era riuscita a far completare gli studi a tutti e due i figli: il maschio era diventato geometra e la figlia era pittrice ed insegnante, dopo aver svolto gli studi all'istituto d'arte.
Donna, a vent'anni, lasciò la casa paterna per sposarsi, come già aveva fatto il fratello maggiore ed aveva avuto un figlio: andava orgogliosa di quel figlio unico, un bel ragazzo moro, ben educato, che dopo aver compiuto gli studi presso il conservatorio della città era diventato un bravo ed acclamato violoncellista.
Durante gli anni di studio al conservatorio, la casa aveva risuonato delle note uscite con difficoltà da quello strumento, note straziate e strazianti, assordanti, acutissime alcune e profondissime altre che facevano tremare i vetri ed i pavimenti.
Luciano, chiuso nella sua stanza, faceva tanti sforzi per far suonare quello strumento che sembrava ce l'avesse con lui e non volesse cantare nessuna melodia; quante ore passate a pizzicare le corde, a muovere l'archetto che andava per conto suo e non ne voleva sapere di stare perpendicolare andando giù o su come avesse avuto una sua vita propria!
Donna passava accanto alla camera e scuoteva la testa, sorridendo, sentendo i sospiri del figlio che non voleva darla vinta a quello strumento che era stato acquistato in un negozio specializzato ma era senza tante pretese, da studio, appunto.
Al terzo anno, Luciano aveva espresso il desiderio di andare a Cremona a cercare un liutaio famoso per acquistare un secondo strumento da utilizzare per i concerti di fine anno.
A studio completato, c'erano tre violoncelli per casa, differenti per colore del legno e per il suono che producevano e quando passava dalla camera, nel sentire la musica che usciva dalle mani di Luciano, Donna aveva le lacrime agli occhi: quello strumento che sembrava così ostile nei primi tempi, era diventato una voce dolcissima, un canto melodioso e le mani su quello strumento diventavano un tutt'uno, l'archetto sembrava il prolungamento di quelle dita che ormai sapienti facevano sgorgare suoni struggenti.
Luciano non pensava di essere diventato così brava e rideva dell'entusiasmo della madre e continuava a dirle che solo per lei lui era così bravo, lui non pensava affatto di meritarsi tutti i complimenti e doveva ancora studiare e studiare per diventare davvero perfetto.
Ma abbracciava sua madre con una tale dolcezza che Donna si sentiva al settimo cieleo, fra le braccia di quel figlio così desiderato ed amato.
Erano stati anni di angoscia ogni volta che Luciano affrontava un concorso per trovare un posto come precario nellel orchestre più note ed intanto arrivavano cartoline dal Canada e dal Giappone con la scrittura ed il tono felice di chi stava pian piano aprendosi un varco nel mondo.
Donna e Stefano speravano che Luciano intraprendesse l'insegnamento per poterlo avere più vicino, ma sapevano che per il figlio la vita aveva significato solo quando prendeva il suo violoncello e suonava e così si stavano rassegnando a vederlo velocemente, disfacendo e preparando valigie.
A trent'anni, Luciano era già famoso nelle orchestre ed ancora non aveva pensato di farsi una famiglia propria: aveva un amore, una ragazza conosciuta al conservatorio che suonava il pianoforte, ma per ora i due giovani non pensavano di sposarsi. Dovevano ancora preparare il futurol e per questo dovevano impegnarsi ed essere ancora liberi e disponibili a viaggi e prove e concerti e concorsi.

Ma quella maledetta notte aveva messo fine a tutto, ai sogni ed ai progetti.

Luciano era uscito, al rientro da una tournèe in Giappone con un famoso direttore d'orchestra, per incontrare tre vecchi amici del quartiere che erano andati a prenderlo in auto per passare una serata al solito pub.
Avevano passato il tempo ricordando gli studi fatti assieme e parlando dei progetti di lavoro che si stavano prospettando per il domani di ognuno; tra un bicchiere di birra e l'altro, tra una chiacchiera e l'altra si era fatto molto tardi e Luciano, che voleva approfittare dei giorni di riposo che aveva a disposizione, aveva chiesto di essere accompagnato a casa per poter dormire nel suo letto ed assaporare il sonno meritato.
Il pub dove si trovavano i quattro giovani era un po' fuori dalla città e si stava animando proprio a quell'ora: il parcheggio era pieno di auto da cui scendevano ragazzi e ragazze pieni di allegria e voglia di vivere quell'inizio d'estate.
Sembrava che alcuni di quei ragazzi avessero già fatto altre scorribande in altri locali perchè da come scherzavano e camminavano si vedeva chiaramente che erano già un po' alticci e forse sarebbe stato meglio che andassero a smaltire l'alcool in un buon sonno ristoratore.

Questo stava pensando Luciano avviandosi all'auto dell'amico: il segreto per vivere bene è conoscere i propri limiti e rispettarli rispettando se stessi.

L'amico aprì le portiere e fece salire i tre ragazzi e Luciano si sedette di fianco al guidatore; la macchiana si avviò all'uscita del parcheggio portando i giovani che, seduti tranquillamente ai propri posti, continuavano a scherzare ed a parlare.
La città era vicina ma ci sarebbe voluta almeno una mezz'ora prima di arrivare a casa di Luciano e si poteva ancora raccontare e darsi appuntamento per la prossima volta successiva che non avrebbe potuto essere prima di qualche mese: infatti Luciano aveva in programma una nuova tournèe in Canada per Natale, cosicchè la prossima uscita con gli amici poteva prometterla per gennaio, con l'anno nuovo.
Gli amici gli dicevano che ormai loroa erano solo degli estranei per quel violoncellista che si stava dimenticando i vecchi compagni di scuola e Luciano stava per schernirsi rispondendo che non si trovava bene con nessuno come si sentiva con quegli amici rumorosi; lo schianto li colse impreparati.

Un'auto proveniente dal senso opposto improvvisamente aveva sbandato, con i fari che diventavano sempre più grandi e che si avvicinavano sempre più ad una velocità incontrollata e li aveva colpiti frontalmente.

Indossavano tutti la cintura di sicurezza ma Luciano, per parlare con gli amici seduti dietro, era girato e l'urto l'aveva colto all'improvviso e l'aveva lanciato contro il parabrezza dell'auto.

La casa di Donna all'improvviso brulicava di gente, molti i giovani che conoscevano Luciano, orchestrali e studenti del conservatorio, persone che si stringevano attorno a Donna e Stefano, alcuni cercavano di trattenere le lacrime, altri lasciavano correre il dolore e lo trasmettevano per esorcizzarlo ed abbandonarlo.
La chiesa era piena di persone che volevano stringere Luciano, Donna e Stefano; Donna riuscì a vedere ed abbracciare tutti ma Stefano non riusciva a parlare, sentiva la gola stretta e sgranando gli occhi non credeva di essere lui, proprio lui, quel padre che il sacerdote voleva consolare.
I sogni infranti, i progetti svaniti, per colpa di uno di quei ragazzi che Luciano aveva intravisto al parcheggio del pub, un giovane che come Luciano aveva pagato lo stesso prezzo per quella serata che avrebbe dovuto finire prima, stando sdraiato su un letto ad aspettare che la sbronza passasse.

I giorni successivi erano passati in una specie di limbo, non credendo a quello che era successo.
Donna aveva continuato ad andare nella camera di Luciano, la valigia appena preparata ancora sul letto, il violoncello da studio appoggiato alla parete, il leggio piegato accanto al violoncello da concerto, pronti entrambi per partire per la città dove dovevano svolgersi le prove della prossima tournèe; quindi, Donna aveva deciso di chiudere a chiave quella camera, di lasciarla intatta così, come se Luciano avesse dovuto tornare, ma continuava a passarci davanti per sentire ancora il respiro ritmato che accompagnava la musica di quel violoncello.

Pensava che non avrebbe mai più fatto l'albero di Natale con la stella sulla punta che piaceva tanto a Luciano: senza di lui anche il Natale non sarebbe stato più lo stesso.

Dopo un mese dal funerale, Donna vide un talk-show a cui aveva partecipato una famosa guaritrice con facoltà di medium e tramite un'amica seppe che la guaritrice, prima di tornare in America, avrebbe fatto alcune uscite nella vicina città.
Si informarono, l'entrata al palazzetto dello sport era gratuita e si diedero appuntamento per andare insieme; l'amica andò a prenderla in auto alle tre del pomeriggio quindi avevano tempo due ore per prendere posto, più vicino possibile, sperava Donna, al palco e seguire tutto l'incontro che il programma diceva sarebbe durato fino alle sette di sera; avrebbe potuto, così, preparare la cena per Stefano che non sapeva nulla di quell'appuntamento.

Mentre Ornella guidava, Donna era agitatissima: aveva sentito, durante il talk-show, che la guaritrice, senza saper nulla degli astanti, era stata in grado di vedere e di sentire quello che i defunti desideravano comunicare ai parenti.
Aveva timore e nello stesso tempo la speranza di essere una delle fortunate.

Quando arrivarono trovarono, davanti all'entrata, una folla immensa: come era possibile che ci fosse tutta quella gente? Gli organizzatori avevano tenuto l'incontro poco pubblicizzato per timore che accorresse troppa gente che il locale non sarebbe stato in grado di accogliere.
Ma il passaparola aveva funzionato perfettamente ed i volti di tutte quelle persone, con lo stesso dolore nel cuore, rilucevano di una speranza incredibile.
Donna temeva di dover tornare a casa delusa ed ancora più affranta, ma ormai era lì e non voleva rinunciare.
Con Ornella si avviò all'entrata, più spinta dalla calca che dalla sua vera fretta; trovarono che lo spazio di quello che in origine doveva essere il campo da basket era già tutto occupato, c'erano già delle persone sedute a quelle sedie, per cui Donna ed Ornella poterono solo avviarsi ad una delle gradinate a fianco.
Per lo meno cercarono di sedere in una delle prime file, ma anche quelle erano giù tutte occupate.
Arrivarono alla terz'ultima fila e Donna pensò: qui non mi vedrà mai, ma almeno sentirò qualche parola di conforto, che mi possa far sentire meglio e mi dia un po' di serenità.

Gli applausi annunciarono che la guaritrice era salita sul palco, entrando da dietro delle tende spesse color arancio.
Era accompagnata da una interprete che cominciò con il salutare i presenti e chiarendo che l'attività della guaritrice era principalmente di aiutare le persone a stare meglio con se stesse ed il mondo circostante; aveva allestito, in America, dei corsi con dei collaboratori che, come lei, erano in grado di aiutare altre persone con la sola 'imposizione delle proprie mani.
Il suo più grande desiderio era quello di avviare le persone ad una consapevolezza che da sola conforta ed apre lo spirito a ben più alti respiri.
A questo punto la guaritrice si alzò e dopo un bellissimo sorriso ed un saluto a voce quasi sussurrata, scese dal palco; la sua accompagnatrice, con voce calma, invitò i presenti al silenzio ed a non toccare assolutamente la guaritrice, che doveva essere libera e "pulita" da contatti.
La guaritrice, girando per le sedie, cominciò a dichiarare di vedere due bambini che la stavano disturbando perchè continuavano a correre tra una sedia e l'altra: non c'è nessuno che deve parlare con questi bambini? Uno è un maschietto e l'altra è una femminuccia.

Nessuno dei presenti disse nulla.
"Mi stanno dicendo che sono qui per tutti voi, per portarvi gioia"

La guaritrice si guardò attorno e: "C'è un bimbetto, lì, che sta accarezzandole i capelli", disse avvicinandosi ad una signora giovane, seduta accanto ad una signora di mezza età. La giovane si mise a piangere: il suo bimbo di due anni, dice, le è mancato da poco.
La guaritrice le prese le mani e con voce sussurrata, a mala pena si sentiva, le disse: "Il suo bimbo le è accanto sin dall'inizio, ma io pensavo che fosse assieme agli altri due bimbi fino a che lui non mi ha detto di salutare la sua mamma".

Tutta la platea trattenne il respiro.

Altre ed altre esperienze vennero raccontate, la guaritrice camminava tra le sedie sul campo da gioco e poi si avvicinò alle gradinate. Ad una signora parlò del marito, ad un'altra della figlia biona, con la coda di cavallo, morta in un incidente mentre era in auto con il fidanzato.

Si avvicinò alla gradinata di Donna.
Indicò Donna.

L'interprete disse: "Lei, signora. No, non lei con il vestito blu, la signora seduta nella terz'ultima fila. Sì, signore, lei, venga, vuole parlarle"

Donna, indicandosi, io, proprio io? Scese le gradinate con il cuore in gola. Ma come, a me vuole parlare? Continuò a chiedere.

"Sì" disse la guaritrice.

Le prese le mani. Com'è possibile? Non si può toccarla!
L'interprete spiegò: "Noi non possiamo toccarla, per non disturbarla nelle sue visioni, ma lei prende le mani per trasmettere il suo fluido di guarigione".

Donna era stravolta, per poco non svenne ma Ornella l' abbracciò cingendola alla vita.

"Vedo un ragazzo alto, moro, con due begli occhi neri; la sta abbracciando e le sta accarezzando il viso. Adesso la bacia e mi sta dicendo che non è morto, in quell'incidente, ma è sempre con lei. Suonerà ancora il suo violoncello per lei e vuole che lei faccia ancora l'albero di Natale. Si ricorda quella stella che avete acquistato assieme e che a lui piace molto? Mi sta dicendo che lui sa che lei aveva pensato di non fare più l'albero di Natale, ma lui vuole che lei lo faccia. E quando guarderà quella stella, si accorgerà che brilla più forte di prima perchè ci sarà lui, in quella stella".

Donna sentiva che la guaritrice le trasmetteva calore, una forza vitale passava attraverso le sue mani, ma non riusciva a trattenere le lacrime. Non sapeva se anche gli altri sentivano le parole della guaritrice ma vedeva le lacrime in altri visi. Sentiva come se ci fosse una mano sulla sua testa, sentiva la carezza, sentiva il respiro di suo figlio che andava a tempo con una dolce melodia di violoncello.
Sarebbe tornata a casa e avrebbe cercato di trasmettere la stessa serenità a Stefano, ne avevano bisogno tutti e due allo stesso modo, anzi, forse Stefano ne aveva ancora più bisogno perchè da quel giorno era diventato troppo taciturno.
Suo figlio le diceva che non era morto, era sempre con lei.


Donna girò la chiave ed aprì quella porta.
Entrando nella camera, vide la valigia sul letto, i violoncelli del figlio, mentre un alito di vento fece smuovere le tende bianche come se qualcuno ci passasse accanto.
Asciugandosi le lacrime dal viso, sorrise: come poteva Luciano suonare ancora il violoncello per lei se teneva la porta chiusa?
Si guardò ancora attorno e le sembrò di sentire un respiro ritmato ed una dolce melodia le penetrò nel cuore.

Voltò le spalle per tornare nella sua camera e sbadigliando si preparò ad un dolce sogno.

Wednesday, July 11, 2007

Salve, ragazzi!
Oggi ho una sorpresa per voi: in accordo con la rivista Labrys, di seguito troverete l'inizio de:

L'Archiatra - parte seconda - L'eredità di Nostradamus
Castore e Polluce

Capitolo I

In quella giornata di fine maggio il sole era già caldo e nei campi che circondavano la grande casa si sentiva il lieve profumo della lavanda che iniziava a sbocciare.
Il fattore seguiva i lavoranti che gli mostravano le fioriture degli alberi da frutto per avere le giuste indicazioni sui procedimenti da seguire ed evitare così il pericolo di attacchi dagli insetti e non compromettere la raccolta; quell'anno l'estate si prometteva con il giusto calore ed il giusto grado di umidità per avere dei frutti grossi e succosi e le conserve sarebbero state certamente abbondanti e gustose.
All'interno della casa c'era un gran fermento e Jean Pierre, un bambino paffuto e roseo di due anni, trotterellava per le stanze rincorrendo gli adulti che, in quel momento, pareva non avessero nè occhi nè orecchi per lui.
Persino Silvie, la bambinaia, pareva non lo vedesse affatto: affannata e tutta rossa in viso compariva e scompariva dalla stanza della mamma ora con un catino, ora con un lenzuolo e non stava a sentire le parole arruffate del povero bimbo che, ormai stanco ed affranto, si mise in mezzo al grande ingresso e, all'improvviso, scoppiò in un pianto fragoroso che scosse le pareti di tutta l'abitazione.
Contemporaneamente si aprirono tre porte ed apparvero: Silvie ed un'altra donna dalla stanza della madre, suo padre dallo studio e Rosalbe dalla cucina.
I quattro adulti si guardarono e mentre il piccolo continuava a piangere e singhiozzare, loro non poterono soffocare una grande risata.
"Piccolino, viene da tuo padre: cosa c'è, nonostante siamo in tanti, ti sei sentito solo?"
E così dicendo, l'uomo si avvicinò all bimbo e lo prese in braccio.
"Proseguite pure le vostre faccende - disse alle donne - a lui ci penso io."
Rosalbe rientrò in cucina e le altre dure rientrarono nella stanza della madre da dove provenivano dei lamenti.
"Cosa stanno facendo alla mamma?" chiese il piccolo asciugandosi gli occhi.
"Ti ho detto Jean Pierre che presto avrai un fratellino o una sorellina, vero?"
"Sì" rispose il bimbo imbronciato tirando su di naso.
"Eh, ma deve ancora arrivare. Sai, non è così semplice arrivare a casa nostra, la strada è lunga e faticosa ..." continuò il padre.
"Bisogna andarlo a prendere, allora, padre. Perchè stiamo qui e perchè mamma è in camera sua? Dobbiamo svegliarla e andare tutti insieme a prendere il fratellino."
"Jean Pierre, a dir il vero mamma sta già facendo del suo meglio."
"E come fa, padre, stando in camera sua?"
"Eh, questo te lo spiegherò un po' più avanti, quando sarai più grande."
"Ma io sono grande ..."
In quel momento uscì la donna che era con Silvie, con in braccio un fagotto.
"Messere, ho qui qualcuno per voi" e lo porse all'uomo.
"Cosa è?" chiese il piccolo.
Il padre scoprendo leggermente quello che aveva fra le braccia ne fece vedere il contenuto al bambino.
"E' tuo fratello" disse la donna.
Jean Pierre, battendo le manine si sporse maggiormente per vedere meglio.
"Fai piano, è molto piccolo e fragile" disse il padre. "Mia moglie come sta?" chiese alla donna.
"Devo rientrare in fretta, non abbiamo finito, pare che ci sia un altro bambino" rispose.
L'uomo si fece più pallido ancora di quanto già non fosse.
"Un altro?"
Non ricevette alcuna risposta, però, perchè la levatrice era già rientrata nella stanza della partoriente.
"Padre, fammi vedere, lo voglio vedere, il fratellino. Che pelle bianca che ha, vero padre?"
A quelle parole, l'uomo guardò il neonato e si avvide che il bambino aveva ragione: il piccolo che teneva fra le braccia aveva una carnagione quasi trasparente tanto era pallida e sottile; la peluria, quasi inesistente, era bianca ed anche i capelli, già abbondanti, non avevano alcuna colorazione.
Il neonato, molto tranquillo, stirandosi aprì gli occhi verso il padre che poco ci mancava che svenisse: gli occhi del piccolo, infatti, erano del colore del ghiaccio, di un azzurro limpidissimo, in cui ci si poteva specchiare come su di un laghetto di montagna.
Per un lungo istante rimase senza parole ed interdetto, mentre il piccolino gli prese un dito per metterlo in bocca e succhiare.
"Non mi somiglia, però - disse Jean Pierre - io sono nero di capelli e lui no. Ma mi piace lo stesso, padre e a te?"
L' uomo guardò il bambimo e guardò il piccolo e sorrise.
"Certo, Jean Pierre, mi piace. E' diverso ma ognuno di noi è diverso dagli altri, questo è il bello di nostra madre natura. Non possiamo mai sapere quali giochi abbia in mente ma Lei sa sempre cosa fa. Avvicinati, dai un bacio al nuovo arrivato."
Jean Pierre si avvicinò al fratellino che era sulle ginocchia del padre e gli diede un bacio sulla guancia.
In quel mentre, la porta della camera si aprì.
"Jean Pierre, hai anche una sorellina" disse Silvie portando un altro fagotto.
Il piccolo battè le mani e si avvicinò alla donna.
"Fammela vedere, fammela vedere"
"Piano, Jean Pierre, non fare rumore" gli disse il padre.
Silvie si abbassò un po', scostò il lenzuolo e fece vedere il viso della bimba.
"Anche la bambina è bianca di peluria e di pelle" disse il padre e Silvie fece cenno di sì.
"Ha gli occhi del colore del ghiaccio" aggiunse la donna e tornò nella camera.
L'uomo, che aveva appoggiato il maschietto nella culla e preso in braccio la bambina, era sorpreso.
Un parto gemellare era già un avvenimento alquanto improvviso ma quei due bambini, così diversi dal consueto, così fragili all'apparenza, lo lasciavano perplesso.
Ci fosse stato il Maestro accanto a lui, in questo momento, avrebbe trovato senz'altro qualcosa da dire di rassicurante, ma lui non trovava alcun argomento per sè e per il figlio che gli stava ancora di fianco a rimirare quella creatura inaspettata.
"Padre, sono strani ma gli vorremo bene, vero? Potrò giocarci con i miei fratellini?"
"Certamente, ma dovrai aspettare che almeno possano muoversi agevolmente sui loro piedini; anche stando in culla, forse, riusciranno a giocare con te. Adesso hai grandi responsabilità essendo il maggiore, il più grande."
"Sono il maggiore? Sono il più grande? Allora dovranno ubbidire ai miei ordini!"
"Sì, ma tu saprai dare degli ordini buoni, vero?"
"Certo, padre. Qui nessuno è padrone di nessuno, vero?"
"Ben detto, Jean Pierre. Qui siamo tutti allo stesso grado, solamente ci sono i più grandi che sanno già cosa devono fare e dire e ci sono i più piccoli che devono imparare. Ma nessuno è padrone di nessuno."
"Padre, i miei amici potranno giocare con i miei fratellini?"
"Anche per loro arriverà il momento di poter giocare con i tuoi fratellini. Ma credo che i due piccolini avranno bisogno di molte cure, Jean Pierre. Sarai in grado di essere loro vicino?"
"Certo, padre, sono il maggiore!" rispose il bambino dondolandosi.
"Eh, già"
Silvie uscì in quel momento dalla stanza della puerpera.
"Sto io con i bambini, adesso, Michel. Se volete andare da vostra moglie, adesso potete andare. Sta riposando, ma ha chiesto di voi."
L'uomo non se lo fece ripetere e, lasciata la neonata, entrò nella camera.
Nella stanza illuminata dalla grande finestra il letto a baldacchino, pur nella sua maestosa presenza, scompariva a causa delle grandi dimensioni di quella camera.

........ continua